lunedì 18 febbraio 2013

Great Big White World.

La droga è il modo che ha Dio di dirti che stai facendo troppi soldi.


Non c'è sole a sorgere oltre l'oblò della stanzetta in acciaio in cui riposa Electra Williams.
Come ogni mattina ha lavato la faccia, ha indossato la camicia, la giacca, i pantaloni maschili. La fondina ascellare accuratamente riempita riposa sotto il soprabito nero.
Stese una sottile striscia di polvere bianca sull'asettico acciaio del tavolo da pranzo e arrotolò una banconota da cinquanta dollari, nuovi di zecca. Era ormai diventata un'abitudine quotidiana a cui non poteva rinunciare.
Quella roba le dava un senso di conforto e di sollievo. Era più lucida e più socievole. A lavoro rendeva di più. Instancabile, avrebbe anche potuto fare a meno della pausa pranzo, quel giorno.
Raccolse gli ultimi granelli strappati alle narici dilatate e brucianti con un polpastrello inumidito di saliva, e lo passò sulle gengive arrossate con perizia chirurgica. Tirò indietro la testa, buttando gli occhi lucidi e liquidi al soffitto, risucchiando aria dal naso e incurvando la schiena ossuta, scrocchiando le vertebre intorpidite dal poco riposo.
Ora poteva affrontarli. Niente e nessuno l'avrebbe scalfita.
Lei era la Regina dello Spazio e questo non sarebbe cambiato.
Tutti avrebbero tremato.
Lucida come poche altre volte, attraversò la porta scorrevole che la separava dal suo piccolo, grande e bianco mondo, per mischiarsi al brulichio di anime e fantasmi laboriosi.
Ming Li l'attendeva al Roadhouse, e per quanto detestasse dal profondo avere a che fare con quel genere di donna, si sarebbe presentata. Aveva fatto preparare un grazioso separè in carta di riso e il più elegante servizio da the del saloon affollato. Riusciva nitidamente a percepire la tensione e il timore negli occhi stretti dell'orientale e come al solito si sarebbe crogiolata in quella sensazione d'onnipotenza facendo finta di niente.
Si sarebbe vestita di indolenza e sorrisi artificiali. Avrebbe ammiccato all'etichetta semi-corer che era riuscita ad imparare frequentando gente come Donna Winter e Brent Ratliff. Sapeva imitare alla perfezione quei modi affettati, per quanto caricaturali potessero risultare nell'inglese stropicciato e distratto che era solita biascicare tra una sigaretta e l'altra.
Ancora una volta avrebbe speso fiato e parole in discorsi che non le importavano se non in minima parte.
Ancora una volta avrebbe mentito a se stessa e agli altri.
Ancora una volta avrebbe indossato la maschera e si sarebbe chiesta perchè non riuscisse ad essere quel che è realmente al cospetto di nessuno che non fosse Louell e i suoi baffi spessi e strambi.
Aveva acceso una sigaretta che si consumava tra le labbra. Non fumava perché era nervosa. 
Lo era, questo non poteva negarlo, ma fumava perché la meccanica dei gesti che facevano bruciare la sua Black Mamba e riempivano di catrame i suoi polmoni, le teneva la testa occupata.
Tornata in stanza dopo il colloquio snervante con Ming Li era rimasta immobile sulla soglia, fissando il piumone che si confondeva sul materasso, in una sorta di burrasca di microfibra. 
Ed immobile fissava quel caos che era lei, guardandosi in uno specchio che la rifletteva distorcendola.

***


Al suo capezzale si erano alternati colleghi, Bernardo in primis. Aveva dormito sulla poltrona d’antracite ed aveva usato i suoi giorni di ferie per stare accanto al suo letto, a carezzarle la fronte e spettinarle i capelli. Al suo risveglio era stata la prima persona che aveva visto, la prima persona a cui aveva sorriso, che le aveva parlato, sussurrandole qualcosa che non era riuscita a capire. 

Della Morte non ricordava nulla. Non aveva memoria di niente. Di un solo attimo. Faceva persino fatica a ricordare il chiodo che le aveva trapassato il cranio, ma attraverso i racconti ed i verbali redatti dai colleghi la sua mente era riuscita a ricostruire quello scenario ed  era riuscita ad associare al suo incubo suoni, sfumature e volti. Anche solo immaginari. Il volto di Neville che la guardava, ad esempio, le appariva chiaro, retroilluminato.

Suo padre non era mai venuto a farle visita.
Ma non era stata una sua scelta.

Le avevano dato la notizia del suo assassinio appena era divenuta sufficientemente lucida da comprenderla. Aveva reagito calandosi in un altro coma, quella volta in maniera del tutto volontaria. 
Il suo personale coma dei sensi e della parola. 
Non provava niente. 
Non parlava mai. 
Se ne stava muta, senza dire una singola frase o emettere un solo suono. 
Non aveva mangiato per due giorni. Quando riceveva visite si eclissava, fingendosi stanca o dormiente. 
Bernardo rispettava, comprendeva e sopportava quel suo silenzio.

*** 


Louell vestiva sempre in maniera elegante. 
Ogni giorno aveva un abito diverso, un colore differente che indossava con la disinvoltura di un quindicenne. 

Aveva un sorriso leggero, stretto in labbra sottili, appena vivacizzato da una linea arzigogolata di baffi allinsù. Si muoveva con delicatezza, come chi sa cosa può permettersi. Aveva piena consapevolezza dell’uomo che era, ed appariva chiaro a chiunque, anche dopo una sola occhiata, che doveva essere un ragazzo dalla bellezza eccezionale.
Le sistemava le coperte, riattaccava il cerotto che teneva ferma la flebo, le dava un bacio sulla fronte. 
Poi sedeva su una sedia accanto al lettino e guardava il monitor, osservando la vita di Electra Williams attraverso quella sequenza di picchi verdastri, come se cercasse in quel “bip” le risposte che lei non gli dava.  
Le raccontava storie divertenti tirate fuori sul momento.
Lei si chiedeva cosa facesse prima e dopo. Come si sentisse nella sua casa magari grande e così vuota. 
Si rimproverava, di non ricordare, di tanto in tanto, i suoi “no” alle richieste di lui, in un passato non troppo lontano.
In quei giorni si era sentita vecchia. 
Aveva nelle vene la pesantezza dei suoi ventiquattro anni, che non mollava il sangue, che la trascinava in un vortice di stanchezza perenne. Eppure quando era con lui, con Lou, quella sensazione svaniva. 
Tornava ad essere semplicemente lei, sua, e questo la faceva stare meglio in un certo modo.

***

Ciondolava da una parte all’altra della stanza. Il suo sorriso stentato illuminava più del sole che si affacciava da dietro le tende, facendosi largo a fatica attraverso la tarda mattinata. 
Canticchiava , con una voce particolarmente intonata ed attenta agli accenti. 
Non riusciva a pronunciare bene la “erre”, ed al suo posto metteva un suono trascinato e liquido.
Era a casa.

Era una sera di fine Febbraio. Il calendario non mentiva.  Il ventidue del mese cerchiato in rosso. Una nota nelle due righe sottostanti: “Chiamare avvocato”. 
Il sogno ti lascia sempre immersa in un limbo di incertezza. Nel dubbio che sia la tua realtà ad essere frutto dell’immaginazione, mentre lui, il respiro del tuo subconscio, è come realmente stanno le cose, come, per davvero, appari agli occhi degli altri ed ai tuoi. 

Era la prima volta che sognava dopo quel sabato.

Lei era in piedi, in cucina. Le finestre avevano gli scuri chiusi e la luce elettrica della lampadina a basso consumo colorava l’ambiente di un giallo pallido. Era in piedi. Sorrideva. Si muoveva piano, incerta come i bambini che hanno da poco smesso di gattonare. La tavola era apparecchiata, per quattro, ed i fornelli erano ingombri di scodelle. Probabilmente c’era anche qualche odore, ma quello le sfuggiva. 
Indossava una maglia viola, con un disegno stilizzato, un paio di bermuda neri ed ai piedi aveva rumorosissimi stivali. 
I suoni erano ovattati, ma li percepiva. 

La voce roca del fuoco che scaldava le pentole, la melodia di Only You sputata dall’impianto stereo del soggiorno, il tambureggiare del suo cuore, incredibilmente ritmico. 
La disposizione dei mobili era quella della mattina della sua morte. Sulla bacheca di sughero c’erano gli ultimi scontrini e le buste chiuse delle bollette. In basso, sulla sinistra, c’era un biglietto. Era per il suo compleanno. C’era un pagliaccio che usciva da un pacco regalo disegnato sul fronte, mentre il retro era occupato da uno smile. All’interno qualche parola, abbandonata sulla carta lucida da una biro blu che non aveva macchiato. Aveva riconosciuto la scrittura. Neville. 
In quel preciso momento, il dubbio del sogno era scomparso. Lei sapeva che stava sognando. Sapeva che era morta. Sapeva che ciò che vedeva era un proiezione irreale. Lo sapeva, ne aveva coscienza, e piangeva. Immobile. Piangeva come chi si sente impotente di fronte alle immagini sacre. Piangeva in silenzio, leccando le lacrime che le tagliavano in due le guance. 



Sorrideva, assottigliando lo sguardo come per riparasi dal sole di un Agosto lontano. Aveva percepito un leggero bruciore agli occhi, ed aveva pensato che era quella la sensazione che si doveva provare quando non si mentiva ammettendo di avere paura.

Un'altra striscia. Ancora una.

Anche quella notte cercò inutilmente di chiudere occhio.


sabato 9 febbraio 2013

The Rebirth

Forever mad, forever kill, forever alone.


Si sbagliavano.
Niente è per sempre. Nemmeno la Morte.


Li senti sussurrare come spie, filtrare come spifferi fastidiosi sul collo. Loro pensano d'esser discreti. Loro pensano che tu non te ne accorga.
"E' quella pazza della Williams."
Io sorrido. Che pensino quel che preferiscono, poveri idioti. 
Io so la verità.
Non è follia quella che mi ha spinta a togliere la vita di due sedicenti innocenti. Nessuno lo è. Ci sono solo certi che hanno la presunzione d'essere giudici di se stessi, e giudicarsi puliti.
Non è follia quella che mi ha convinta a prendere in mano le mie responsabilità, andando incontro a morte certa per salvare la vita di qualcun'altro, che IO ho giudicato esser innocente e pulito.
I folli agiscono senza alcuna razionalità, io, al contrario, conosco benissimo le conseguenze delle mie azioni, ma non ho mai considerato quelle conseguenze ragioni sufficienti per non andare fino in fondo. E quando poi mi sento sussurrare addosso da quelle stesse voci -"Tu sei una pazza, Williams. Le tue azioni sono...folli"- allora non posso che sorridere di loro, biasimarli, e fargli notare che la loro -di follia-, non è tanto diversa dalla mia.
Solo che io non mi nascondo dietro un dito.
Non fingo atti eroici, nè giustifico d'essermi sporcata le mani per una "buona causa". Non esistono buone cause. La Vita di ognuno di noi, dal più ricco al più povero degli stronzi, è sempre più importante, di qualsiasi fottutissima ragione.
Ciò nonostante: Vendetta. La madre di ogni omicidio ben orchestrato. Vendetta chiama Vendetta e non sarà sazia finchè non avrà quadrato i conti.
Loro pensavano che il mio duplice assassinio avesse quadrato i miei, ma no. Per farlo avrei dovuto uccidere Black, poi Neville, poi entrare in quella loro fottutissima bagnarola e far saltare in aria anche quella. Allora, saremmo stati pari... quel che si dice "quadratura". Ma non l'ho fatto. Folle? Può darsi. Forse ho solo compreso che la Vendetta è circolo vizioso in cui non si smette di scendere in basso, finchè tutte le pedine della scacchiera non si sono divorate a vicenda.
Oppure, forse, ho solo capito d'aver vinto.