lunedì 8 luglio 2013

A proposito di whisky. Di passato. Di rimpianti.



Sono seduta in ufficio. La luce dei neon è tiepida contro i vetri chiusi. 
Ho preso un whisky con me stessa. 
Me stessa di sedici anni. 
Guardo quella che ero: come si guarda una fotografia, un amico che non si vede da molto tempo. La me di sedici anni ha gli occhi struccati segnati di rosso. 
Forse tristezza. Forse solo congiuntivite.
- Posso fare qualcosa per te?
Ecco, te l'ho chiesto, piccolina.
- Posso fare qualcosa per te?
- No. 
No?
- Sembri triste. - dico.
Occhi nei tuoi occhi di giovane criminale.
Vedo rabbia. 
Vedo incomprensione. 
Odi te stessa, gli altri, il tuo corpo. Odi accettarti. Odi parlare.
Odi anche me: perchè sono troppo grande, perchè ti capisco e ti voglio aiutare. 
Mi odi perchè odi essere aiutata e odi il fatto che potrei farlo, mentre tu ti senti così inerme.
- Io non ho nessun problema.
Nessun problema. Noto le cicatrici.
Inarchi un sopracciglio: aspetti che io ti saluti. Conosco quello sguardo. E' il mio.
- Posso aiutarti.- Sorridi, senza allegria - Nemmeno io posso.
- Io so già cos'hai.
- No. Non lo sai. Non lo sai più. 
Quest'istante, per me è già passato. Credevo di ricordare tutto. In realtà ho solo generalizzato. Che giorno è oggi? Cosa ti fa star male oggi? E c'è davvero qualcosa che, ricordo, a sedici anni mi ha fatto star male?
Scavare nel passato e rimpiangere: volevo far questo. E adesso?
- Ma se solo potessi..
- E cosa cambierebbe?Niente, tesoro. Proprio niente.
- Posso toccarti i capelli?
Hai dei capelli stupendi, lo sai? 
Sorridi. Hai gli occhi persi e mi odi.

venerdì 5 luglio 2013

Maybe in another life.


Quel pensiero le batteva le tempie inesorabilmente, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Riusciva a tenerla sveglia anche la notte, come un tarlo -benchè fossero già molto poche le ore di sonno che poteva permettersi-.
L'appartamento, sullo Skyplex, non era cambiato di una virgola in quegli ultimi anni. Sembrava essersene accorta solo in quell'istante. Le mura gelide erano sempre lì. Impossibilitata a vedere il grigio nelle cose, a vedere solo il bianco e il nero, eppure immersa in quel grigiore fino al collo.
Ultimamente si era chiesta se era davvero felice.
Se quel che aveva sempre fatto fino ad ora, le rendesse realmente la vita più semplice. E con rammarico s'era accorta che, per quanto si ostinasse a sbatterci la testa, non era riuscita ad ottenere niente di quel che voleva.
Era infelice.
Serena, ma infelice.
Ricca, ma infelice.
Con una vita piena, ma infelice.
E lo sarebbe sempre stata se qualcosa non fosse cambiato. Se non avesse deciso di prendere in mano la sua vita. Di afferrarla, come afferrava le sue pistole. Saldamente e senza alcun timore.

Metteva mano al cortex-pad.
Non sapeva esattamente nemmeno lei cosa scrivere, ma sapeva benissimo a chi doveva scrivere.
Così, si prese di coraggio.
Una lettera dopo l'altra.
Una vocale dopo l'altra, un disegno chiaro iniziava a prendere forma.

***

Ciao. 
Probabilmente ti starai chiedendo perchè ti ho scritto dopo averti trattato in quel modo, l'altro giorno... e francamente me lo chiedo anch'io. Mi sento stupida. E sono ancor più stupida adesso, ammettendolo. 
Ad ogni modo... forse anch'io sento dentro di me di dover... "chiudere un cerchio". 
Di mettere la parola "Fine" a tutto questo. 
Di non lasciare niente in sospeso perchè di cose in sospeso ne abbiamo lasciate forse troppe e forse è per questo che non la finiremo mai di rincorrerci, finchè avremo qualcosa da rinfacciarci o da ringraziarci a vicenda.
Avrei voluto dirti tante cose... e invece ti ho solo fatto una domanda a cui hai risposto col tuo solito modo un po' criptico e distante, sperando che ti comprendessi. 
Ti ho compreso, anche se non volevo darlo a vedere, per orgoglio. 
Anche se è più facile starti alla larga perchè non farlo riesce ancora a farmi soffrire.
Avrei voluto dirti che ti odio... profondamente. Riesci sempre a mettermi qualche dubbio in testa. Riesci sempre a ferirmi. Forse sei davvero l'unico in grado ancora di farlo.
Avrei voluto dirti che ti auguro ogni male. 
Che un po' sono contenta se le cose ti vanno per il verso sbagliato. 
Che sono egoista e non riesco a vedere la tua felicità come una cosa giusta.
Nessuno, nessuno... nessuno come noi si merita d'essere felice.
Nessuno come te si merita la serenità. 
E forse non la vuoi nemmeno tu.
Avrei voluto dirti che per te avrei probabilmente rinunciato ad ogni cosa. 
Avrei voluto dirti che per te sarei riuscita ad essere diversa, a cambiare vita, a darmi una calmata, chissà... forse sarei riuscita anche ad amare in modo "normale". Il modo che volevi. Quello in cui amano tutti, anche se non lo so fare. 
Avrei imparato.
Avrei voluto dirti che hai rovinato tutto. 
Avrei voluto dirti che se sei infelice, è perchè non hai voluto essere felice. 
Avrei voluto dirti che ti sei sbagliato ed io... IO sono quella giusta... anche se tu sei quello sbagliato.
Avrei voluto dirti che, nonostante questo, non posso dimenticare tutto il fango che mi hai gettato addosso.
Avrei voluto dirti che non posso... non riesco a perdonarti.
Avrei voluto dirti che probabilmente ti meritavi davvero che ti sparassi, come volevi, in quell'ufficio, per chiudere finalmente il Cerchio e tornare a vivere le nostre vite come due perfetti estranei e avrei voluto dirti... che forse è proprio per questo che non l'ho fatto. 

E.

Avrei voluto dirti.
Avrei voluto tante cose...
Forse in un'altra vita.

***

Firmava quel messaggio con esitazione.
Si prendeva in tempo di rileggere quanto scritto.
Sorrideva, tra se e se, premendo il tasto di cancellazione.


lunedì 24 giugno 2013

Live.Lie.Love.&Fuck, as well.


-Toccami- gli aveva afferrato la mano tra le proprie e lo aveva costretto  a posarla sul suo seno.
-Smettila. Non ho voglia di giocare.- oppose resistenza, con una scintilla di rabbia che faticava a trattenere nelle viscere. La guardava di sbieco, come la temesse. Come temesse quella parte di lei che gli era estranea, del tutto nuova, inaspettata. Una maschera –tra le tante che lei si ostinava ad indossare- inedita, che non sapeva gestire. L’imbarazzo l’aveva cucito addosso sul rossore delle guance, ma lui lo sapeva: lei non si sarebbe accontentata di un “no”.
Insinuò le dita affusolate tra le sue gambe. Era eccitato.
-Andiamo, lo vuoi, Emile…-
-Non è questo il punto.
-E allora qual è? Non ne vedo altri.- il serpente tentatore tirava fuori la lingua biforcuta. Gli scivolava addosso come sul velluto. Poteva sentirlo fremere, per un istante. Il suo corpo teso, tremava. Serrò le gambe strette nell’ inutile tentativo di nascondere l’erezione sotto la stoffa spessa dei pantaloni, incurante che nel farlo avrebbe costretto la mano di lei in quella stessa morsa. Respirava il suo odore sulla pelle. Le loro labbra, mai state così vicine.
-Ho sopportato, Electra. Ho sopportato abbastanza… per anni che mi sembrano secoli. Ma questo no, non posso sopportarlo.
Lei rideva, di gusto, nonostante quella delusione riuscisse a leggerla negli occhi altrui e le pungesse la carne come un ago impertinente ed incurante sulla pelle che invano oppone resistenza.
-Credi che sia cieco? Credi che non lo veda il costante via vai di uomini… e di donne… -un’inflessione sarcastica spezzava il tono roco e indurito della voce- .. Ti diverti così, adesso?
-E’ solo un gioco, Emile.
-Un gioco, certo. Ma Io non sono solo un gioco. Non puoi trattarmi come tutti gli altri.
Ma lei non riusciva a capire cosa lo turbasse tanto, o forse, non le importava.
Negli anni, aveva imparato ad erigere una barriera attorno a se che negli ultimi mesi era riuscita a schermarle anche il cuore.
Voleva calore, ma non era disposta a perderne una briciola del proprio, e quel calore lo avrebbe rubato a qualsiasi corpo le fosse sembrato abbastanza pronto a giocare col fuoco.
-Ho fatto ancora quel sogno, bruciavamo insieme- le parole di Ezra, vecchie di qualche giorno, le rimbombavano ancora come un’eco distante e prepotente tra le tempie.
Un respiro, profondo. Un attimo dopo era su di lui, premurandosi di sbottonare distrattamente la camicia.
-Non ho bisogno di proteggere il mio corpo, Emile. E’ il mio cuore, quello che voglio tenere sotto chiave.
Era l’unica risposta che sarebbe stata in grado di donargli e lui, sapeva anche che era il suo strano modo di chiedergli scusa, per quel che di lì a poco sarebbe successo. Poteva sentire il suo cuore battere all’impazzata dentro al petto. Il respiro affannato le impattava sulla guancia, caldo come voleva lei.
Gli slacciava i pantaloni, alla cieca.
-Electra… ti prego. –la stava supplicando di non farlo, di non varcare quella soglia, quella soglia da cui non sarebbero più potuti tornare indietro se non cambiati.
Lui non glie l’avrebbe mai perdonato e lei non lo avrebbe mai perdonato a se stessa.
-Sssh- con un dito sulle labbra lo invitava al silenzio.
-Mi ami?- e lei se ne stava zitta, guardandolo soltanto, impassibile e distante, rifiutando di pronunciare quel “no” che lo avrebbe distrutto, o quel “sì” che li avrebbe distrutti entrambi.

Concludiamone dunque che il mondo sarebbe assai migliore se ciascuno si accontentasse di quello che dice, senza aspettarsi che gli rispondano, e soprattutto senza chiederlo né desiderarlo.

Aveva deciso di consumare in fretta quella candela e di spegnere subito la fiamma. Era stanca.
Lui non aveva il coraggio di guardarla, e lei non ne aveva alcuna voglia.
-Ci vediamo domani.- ora era il turno di lui di indugiare nel più totale silenzio.
Silenzio che lei si sarebbe lasciata scivolare alle spalle con indifferenza.

Ognuno di quei volti le passava attraverso, come una lama di vetro nel Vento, ferendola, senza mai toccarla.
Blaze-la passione-,
Aileen-il capriccio-,
Ezra-la disperazione-,
Nancy- l’errore-,
Huck-una scommessa persa-.

Ora, insieme a loro, c’era anche quello di Emile –l’amore non corrisposto-.

Sorrideva, nel buio.
Avanti il prossimo.

sabato 8 giugno 2013

Noi bambine non abbiamo scelta.

Ci sono dei momenti nella nostra vita in cui ci troviamo ad un bivio. 

Impauriti, confusi, senza una meta. 
Le scelte che facciamo in questi momenti possono segnare il resto della nostra vita. 
É certo che quando si è di fronte all'ignoto, la maggior parte di noi preferisce far retromarcia e tornare indietro. Ma occasionalmente, le persone ti fanno pressione per qualcosa di meglio. Qualcosa aldilà del dolore di dover continuare da soli. 
E aldilà del valore e del coraggio che ci porta a far entrare qualcuno. 
O di dare un’altra possibilità a qualcuno. 
Qualcosa aldilà della calma persistenza di un Sogno.

Perché è solo quando ti metti alla prova…che scopri chi sei veramente. 
Ed è solo quando ti metti alla prova che scopri chi puoi essere. 

La persona che vuoi essere, esiste. 
Da qualche parte sull'altro lato del duro lavoro, della fede, credenza…ed oltre l’angoscia e la paura di quello che ci aspetta più avanti.

Ho appena finito di scopare con l'Angelo. Lui dorme, io mi crogiolo tra le coperte.
A dire il vero non so se stessimo scopando o divorandoci a vicenda.
Non so se questo può chiamarsi amore e non voglio chiedermelo, ma so che c'è, e che forse è una delle cose che ho sentito addosso più vicine all'amore, che io abbia mai provato.
No, non lo amo. No. E' chiaro. Ma finalmente amo me stessa e posso essere libera di amare, di amare veramente, qualora trovassi qualcuno degno della stessa considerazione che ho di me.
Ne seguo il profilo regolare. Il naso appuntito, le labbra rosse affollate di barba bionda.
Appare quasi sereno mentre riposa coi miei graffi sulla faccia e la mia cicatrice, il mio personalissimo marchio sulla pelle.
Stranamente, non è a lui che sto pensando.
Ripenso ad un incontro. Sam Hale. Moloko Cortes.

Penso alle scelte che mi hanno portata qui. Su questo letto.Tra queste mura in acciaio.
Penso ai percorsi intricati dell'esistenza umana. Penso alle strade a cui ho rinunciato, che avrei potuto intraprendere e che non ho preso, per scelta mia o per scelta di qualcun'altro.

E se...
Indosso il Browncoat di mio padre. Le sue iniziali incise all'interno del colletto, in eleganti caratteri corsivi "P.W.". Patrick Williams. The Red Plague. Gloriosa morte. Caporale tra le file dell'esercito Indipendentista alla difesa di Boros. Boros, 15-Novembre-2455/ Boros, 21-Dicembre-2479. Una vita relativamente lunga, la sua. Una vita nel sangue.
Porto con fierezza le sue iniziali addosso. Il Browncoat è un po' lasco sulle mie forme smagrite, ma lascio che Johanne ne accorci gli orli. Sorrido. Mi sorridono gli occhi. Johanne è viva e mi prende le misure. Il suo ago è preciso come quello di un chirurgo ed è una splendida donna, bionda, due occhi blu da ammaliare il cuore di qualsiasi uomo. Emile non è stato così fortunato. Morto prendendosi una pallottola al posto mio, durante l'ennesimo attacco terroristico nel Core, New London. Giornata dell'Unificazione, due anni fa. E' per lui che sudo e lecco le mie ferite adesso. E' per lui che sto lottando, con questo cappotto sulle spalle. Il mio fucile ha strappato vite come l'ago di Johanne che si accanisce sulle cuciture degli orli malfermi, usurati dal tempo. Sono morti per una buona Causa, mi dico. Sono morti per l'Indipendenza, mi dico. Morti necessari, mi dico. Una serie di cicatrici mi deturpano le braccia. I miei occhi non hanno più alcuna luce. Io sono Guerra, per la Guerra, con la Guerra. E non avrò mai pace fin quando l'ultimo fottuto di culo blu non avrà pianto e strisciato come un verme invocando la resa, restituendoci la nostra terra, restituendoci... no. La vita di mio padre, la vita di Emile. Quella non avrebbero potuto restituircela, ma avrebbero potuto pagare. Ho un'ideale. Ho fede nel mio ideale e lo perseguirò fino in fondo. Sono forte, ma sono sola. Terribilmente sola con le mie angosce e le mie paure. Mi tremano le mani. Johanne mi stringe il browncoat attorno alla vita e accorcia le maniche.
-Sei bellissima.- me lo sussurra all'orecchio con orgoglio. Con l'orgoglio di una madre che dentro muore un po' alla volta. Perchè sa. Sa che questa potrebbe essere l'ultima battaglia.
-No. Tu sei bellissima, Joh. Io sono solo Odio. E l'Odio non è bello in nessuna delle sue forme.-


E se...
-Caporale Williams, in posizione d'artiglieria. Fuoco a massima potenza. Li voglio vedere esplodere quei Terroristi di merda. Terroristi di merda. Assassini.
-Agli ordini, Ammiraglio Wolfe. Sono in posizione.
-Fuoco.
-Lockaggio effettuato.Fuoco.
La mia divisa blu ha le scintille. Non sono niente senza questa divisa, ma con la divisa sono qualcosa, sono qualcuno. Combatto per qualcosa, combatto per qualcuno. Mi hanno strappato via la casa, mi hanno portato via mio padre, i miei amici, tutto. Sono morti perchè non credevano in un ideale di purezza. Sono morti per la loro infame testardaggine. Sono morti perchè rifiutavano l'avanguardia, l'Unificazione che ci avrebbe resi uomini liberi, uomini migliori, uomini liberi dalla criminalità che ci opprimeva e ci opprime ancora. Boros. Un Pianeta nel fango. Un Pianeta morto sotto la legge del più forte.
Ora IO sono il più forte.L'esplosione del Brigade Indipendentista è un faro nella notte. Un fuoco d'artificio nello Spazio. Illumina tutto. I miei occhi bruciano. Ardo come quelle macerie.
-Il nemico è stato eliminato, Ammiraglio Wolfe. Un altro successo per la nostra Causa.
-Ottimo lavoro, Caporale. Ottimo lavoro.
Nell'armadio ho conservato il Browncoat di mio padre. E' ancora vecchio come lui me l'ha lasciato. Impolverato come lui me l'ha lasciato. Sorrido. I miei occhi sorridono. La mia divisa blu è appesa accanto a quel Browncoat, per ricordarmi sempre cosa ero e cosa sono diventata. Per ricordarmi sempre quale sangue filtra nelle mie vene. Per ricordarmi sempre cosa potevo essere e cosa ho scelto di non essere.
Eppure... eppure... Johanne mi guarda con occhi tristi da quella foto appesa alla parete. Johanne mi guarda e ne sento il peso addosso come un macigno. Quegli occhi blu che bruciano. Quegli occhi blu distrutti dallo stesso blu che porto addosso. Il cielo e il Mare. Il dolore. Piango nel buio. Il ricordo di lei mi distrugge. Sono sola, adesso.
Nessuno mi sussurra più all'orecchio che sono bellissima.
Sono solo Odio... e l'Odio non è bello in nessuna delle sue forme.


Senza accorgermene, sto già dormendo.
Accanto a me, dorme anche l'Angelo, tra queste mura grige.
Riposa bene, Electra Williams. Riposa bene.
Domani è un altro giorno di lavoro come tanti. 
Non hai nemici da distruggere, a parte te stessa.




domenica 2 giugno 2013

Face to Face


Eppure, apprendere la gentilezza, dopo tanta poca gentilezza,
capire come una donna con più coraggio di quanto creda, trovi le sue preghiere esaudite,
non può chiamarsi felicità?


Era raro che riuscisse a provare un sentimento d'empatia così radicato verso qualcun'altro che non fosse se stessa e i suoi fantasmi, quelli che aveva imparato a portarsi sulle spalle, quelli che aveva imparato a chiudere nell'abisso della dimenticanza, nelle sue viscere, lontano dallo sguardo troppo invadente di un'amica, lontano dallo sguardo troppo preoccupato di un padre in cerca di soluzioni.
Ora poteva vederli, gli occhi blu di quella donna, e trovarli differenti dai propri solo per quella sfumatura netta di colore.
Le aveva sparato addosso senza pietà, ed ora la guardava inerme, rabbonita da un cocktail di farmaci che avrebbe potuto stendere anche un cavallo, mansueta e quasi serena nelle coperte di cotone che la cullavano.
La serenità, quella l'aveva cercata tante volte, nelle braccia degli uomini sbagliati o tra le fredde mura in metallo della Stazione. Si ritrovava spesso e volentieri su quella terrazza a ripensare al passato, ad un passato che le sembrava tanto assurdo da non sentirlo suo, probabilmente non l'ha mai creduto veramente suo, ed è per questo che le era scivolato lentamente dalle dita insieme a tutto il resto.

Aveva ripreso lentamente coscienza e il primo pensiero era stato quello di coprirsi il volto con le mani.
Hannah Starker aveva la pelle del viso completamente deformata dalle ustioni, lucida e tirata talmente tanto che la bocca le si è piegata per sempre in un ghigno storto vagamente macabro. 
La osservo dall'alto, incurante della soggezione che so di provocarle, guardandola in quel modo tanto diretto da risultare invadente. Sfacciato.
Non provo disgusto per lei o per le cicatrici che si porta addosso. Provo disgusto per quel che ha fatto, ma c'è qualcosa, dentro di me, che mi impedisce di biasimarla davvero.

-Non coprirti, Hannah. Non devi, difronte a me.- provai a rassicurarla, con garbato distacco.
-...non posso, io... non posso...- biascicava una risposta campata in aria e cercava il cotone delle coperte, scivolando su un fianco per darmi le spalle, ficcando la testa sotto il cotone caldo come fanno gli struzzi nella sabbia.
-Hai ucciso delle donne, Hannah. Hai avuto il coraggio di farlo.. sapendo a cosa saresti andata incontro.. e non hai il coraggio di sostenere il mio sguardo. Forse ti ho sopravvalutata.

Ma non riuscivo a fingere distacco. Non abbastanza.
Quel viso deformato è l'emblema di quel che siamo, tutti. 
Si diventa Mostri, lentamente.
Lo Skyplex ti succhia l'anima. Ti cambia, profondamente. Divora dall'interno, fin quando quell'ultimo briciolo d'umanità non è stato sostituito. 
Più profitto. Più guadagno. Più lavoro. Più.. più..più. 
E così si finisce col credere che l'essere "più" possa renderci più forti, in grado di sopportare ogni sacrificio, in grado di incassare ogni batosta, in grado persino di ignorare ogni dolore. 
Come supereroi che combattono per una causa sbagliata, noi non abbiamo tempo, non abbiamo spazio, non abbiamo limite. 
Noi siamo Infinito, ma siamo Niente.Macchine piene di nulla.

-Meritava di morire.. chi ti ha fatto questo. Non quelle donne. - e mi sembra di rivedere la me di qualche tempo fa. Molly ed Anya. Neville. Gli spari. Il buio. La solitudine dell'Odio.
Non parlava. Evitava di rispondermi, o forse quella brutta cicatrice le aveva tolto la possibilità di articolarsi in modo chiaro. Decido di colmare il vuoto ponendo domande di cui conosco già la risposta.

-Cosa si prova, Hannah? 
Provi rabbia, odio. Soffri, ma sai che sei sola, sai che a nessuno importa e che puoi contare solo su di te e sulle tue gambe per continuare a camminare. Sai che non avrai più una vita normale, un amore normale, un giorno normale, e non sai più chi sei, ma solo cosa vuoi. E quello che vuoi è trascinare gli altri nello stesso baratro in cui sei stata costretta tu, convinta che quel vuoto incolmabile un giorno, potrà tornare ad essere riempito.
Sei sola, Hannah. Nessuno sa cosa provi. Io stessa non potrei mai immaginarmi... così.
Eppure tutti abbiamo perso qualcosa, che fosse un pezzo d'anima o un pezzo di cuore, o la fiducia negli essere umani o la Speranza. Ogni uomo semina alle sue spalle qualcosa che non tornerà mai indietro a riprendersi, scippato o meno dalle mani di qualcun'altro. Ed ogni cosa perde d'importanza. 
Che sia giusto o sbagliato non importa, perchè per chi ha sofferto, Giusto e Sbagliato, Bene e Male, sono solo parole.
Due gemelli muoiono nel Core, e si chiama subito alla strage. 
Dieci padri muoiono nel Rim, lasciando altri due gemelli a crescer soli in strada, e tutti gridano estasiati invocando l'Unificazione. Che buffa ipocrisia che è la vita..
Ha forse una vita più valore dell'altra, Hannah? Io non lo credo. Ma ci sono vite che hanno valore per me, ed altre che non ne hanno. 
Questo, forse, mi rende meno Mostro di te? -
sorridevo, con una punta d'amarezza.

-Siamo tutti Mostri, Hannah, impegnati in una danza fatta di maschere e scheletri nell'armadio.
E quando non hai più voglia di danzare, che decidi di farla finita. E so che questo non è il tuo caso. No. Tu ami la vita. La ami proprio perchè eri ad un passo dal perderla. La ami proprio perchè sai che forse parte di essa l'hai perduta quando hai perso la bellezza.
E allora vivi, Hanna. Non averne paura. Nessuno danza troppo a lungo da solo senza rischiare di prendersi del matto o di diventarlo. Danza con me. O danza con chi vuoi, ma non-farlo-da-sola. Te ne pentiresti.

C'è più gentilezza in questo Verse di quanto il tuo cuore possa ancora credere e sostenere.




sabato 18 maggio 2013

Just a prayer.





Ho perdonato gli errori quasi imperdonabili,
ho provato a sostituire persone insostituibili
e dimenticato persone indimenticabili.
Ho agito per impulso,
sono stata delusa dalle persone che non pensavo lo potessero fare,
ma anch’io ho deluso.
Ho tenuto qualcuno tra le mie braccia per proteggerlo;
mi sono fatta amici per l’eternità.
Ho riso quando non era necessario,
ho amato e sono stata riamata,
ma sono stata anche respinta.
Sono stata amata e non ho saputo ricambiare.
Ho gridato e saltato per tante gioie, tante.
Ho vissuto d’amore e fatto promesse di eternità,
ma mi sono bruciata il cuore tante volte.
Ho telefonato solo per ascoltare una voce.
Io sono di nuovo innamorata di un sorriso.
Ho di nuovo creduto di morire di nostalgia.
Ho avuto paura di perdere qualcuno molto speciale
(che ho finito per perdere)
Ma sono sopravvissuta.

E vivo ancora.
E la vita, non mi stanca.
Vivo. E’ veramente buono battersi con persuasione,
abbracciare la vita e vivere con passione,
perdere con classe e vincere osando,
perché il mondo appartiene a chi osa.


Mi criticheranno sempre,
parleranno male di me
e sarà difficile incontrare qualcuno
al quale possa andare bene così come sono.

Quindi: vivo come mi dice il cuore.
Una vita è un’opera di teatro senza prove generali.



Amen.

domenica 5 maggio 2013

Till Death





Ascoltatemi voi che vivete nei sensi,
e ascoltate solo i sensi:
L'Immortalità non è un dono,
l'Immortalità è una conquista.
E solo coloro che combattono allo stremo, la possederanno.



Sono arrivata così tante volte tanto vicina alla Morte, da non riuscire più a sentire niente.
Sono arrivata così tante volte tanto vicino alla Morte, da non poterne più fare a meno.
Sono arrivata così tante volte vicino alla Morte, che quasi non mi riesce più di vivere. Di amare.

Morte. Pirati. Lo Spazio sa essere crudele e spietato quanto e più di un assassino. Mi trovo a scrivere lettere esagitate all'interno di un Pod di salvataggio difettoso, ad un passo dall'Oblio, ad un passo dall'inevitabile, sicura che niente e nessuno avrebbe potuto più salvarmi. 
Ho lasciato che i miei mi abbandonassero.
-Perchè Signore...? Perchè a me...? Tua serva fedele. Tua Templare devota.
Stringo le braccia attorno al corpo esanime di Emile, aggrappata a quel mucchio di carne come se da quello dipendesse la mia stessa vita. Come se da quello dipendesse ogni mio respiro, che con lui, sarei morta anch'io, sarebbe morta con me ogni briciola di speranza, sarebbe morta con me ogni briciola di volontà.
Lo stringo e ripenso a quando si giocava insieme alle cave d'argilla. A quando, sozzi di fango, attendevamo Johanne e Stevens per le solite scorribande a BlackLake. Ripenso a quella volta in cui si tolse la giacca per coprirmi le spalle, quella notte che eravamo rimasti da soli in cima alla tettoia della casa del Carlson su cui ci piaceva arrampicarci per guardare dall'alto gli ultimi rancheri che si sgolavano per riportare in stalla le loro vacche. Ripenso a quando avevamo cercato di sconfiggere la paura rubando al Casinò di Dokinai, facendoci irrimediabilmente beccare, e lui si offrì di prendersi pure le mie frustate al posto mio.
Per queste cose lo si ama. Un po' vergognandosi d'esser stati tanto cattivi con lui.
Per queste cose non ho avuto nessuna esitazione nel trascinarmelo appresso, pur sapendo che per me sarebbe significato abbandonare questo Verse infame.
E invece, la salvezza, inaspettata ancora una volta. Una salvezza che si chiama ironicamente All Saints
Una salvezza che ha nome volto: Eivor Edwards ed Aileen Ward.
Eppure, non sono mai stata abbastanza riconoscente. L'ennesimo attacco pirata. Non ho più voglia di lottare.

Morte. Raan, St. Andrew. Un salto nel fuoco. L'ennesima metafora della mia esistenza sta lì difronte a me: un muro alto due metri di puro fuoco che fiammeggia sotto i miei occhi stanchi, arrabbiati, colmi d'odio. Silver è rimasta accanto a me. Pende come una disperata attaccata ad una specie di passerella sospesa su un baratro. E si aggrappa con le unghie e con i denti, e lotta, come una guerriera. Lotta, e io salto. Un salto. Il vuoto. La libertà. Socchiudo gli occhi. Mi mancano i capelli. I miei bei capelli rossi. 
Vorrei piangere ma non riesco a trovare la forza e invece ce l'ho per abbattere senza pietà i tre giganti che mi vengono incontro. Mi batto senza sosta, sfoderando i pugni, denti stretti, fiato corto. Un cazzotto dopo l'altro. Cadono come foglie morte al vento d'autunno.
-CHI-OSA-SFIDARMI-ADESSO?!
Chi osa sfidare l'Immortale? Chi osa sfidare Electra Williams? Electra Williams, che sfida se stessa, la Morte, per l'ennesima, fottuta, volta.
Donna Drago, mi hanno chiamato. Donna Drago.

Morte. Un recupero disperato. Cecchino senza pietà avvolta dalle ombre e dalla neve. La canna del mio M-9 non perdona, letale. Una testa salta via come palloncini di carne una dietro l'altra. Uno, due, tre morti cadono. Quattro, cinque, sei, vite rotte, spezzate dalla mia brama di vendetta. Smithson e Price a lottare insieme a me, una squadra vincente. Soldati pronti a tutto, fino allo stremo.
Orgoglio, estremo orgoglio. Sorrido. Finalmente chiudo gli occhi. Finalmente posso riposare, finalmente la pace. 
Ah, Dio... la Pace.
-Enn, Vinz... è proprio vero: noi siamo immortali.

Morte. Droga. Sono arrabbiata, sono frustrata. E sniffo Blast come non ci fosse un domani. Bianca, la vedo: purissima e candida come neve. Ne sminuzzo un po', con fare materno e maniacale. Huck mi avverte: rischio l'overdose. Lo ignoro. La mia voglia è troppa e quasi sbavo per la voglia. La voglia che mi fotte il cervello. Tiro su. Il cuore esplode, batte a mille, vedo nero. Overdose. Convulsioni. Rischio di arresto cardiaco. Battito a zero, respiro altrettanto.
-Per dimenticare... per dimenticare. E dire che no ti ho mai detto... Joe...non ti ho mai detto.

C'è Huck accanto a me, c'è Silver, c'è Nancy, c'è Vincent.Ci sono loro. Loro, i miei angeli custodi, la mia Vita, tutto. Tutto. Io che sono niente. Io che sfido l'impossibile credendo in una vita Eterna. Io che senza amore, sono niente.

Senza amore, sono niente.

sabato 13 aprile 2013

Gone.



Tra di loro c'era sempre questa strana cosa, nell'aria. 
Questo gioco. Questa sensazione. Questo patto muto. Questo accordo non scritto.
Se lei era in un posto, lui era all'altro capo. 
Se lei s'avvicinava, l'altro se ne andava, ma quando poi si voltava a constatare se lei fosse ancora lì, a seguire come un segugio minuzioso i suoi passi, era già troppo tardi. Lei non c'era più.
Però, quando riuscivano ad incontrarsi in luoghi e in orari stabiliti dal caso o dal destino o dall'odore, allora tutto aveva un senso. Le strade percorse. I chilometri a piedi. Le ore d'attesa, non erano più tutte vane.
Quella notte s'erano strappati la carne a vicenda. Impossibile dire se stessero lottando o scopando così forte da dimenticare d'avere un corpo e da farsi schifo. Era quella la sensazione che provava ogni volta che gli sedeva a fianco, sul bordo del letto, senza darsi il tempo di riprendere fiato o di chiudere occhio come invece aveva ben pensato di fare lui. 
Nauseata. Vuota. 
Si trascinava stanca e riottosa, tirandosi in piedi con quella voglia di scappare che le faceva fremere le gambe, tremare le mani per l'impazienza, cercare spasmodica i pantaloni gettati alla rinfusa in qualche angolo di quella stanza.
Troppo tardi, lui si svegliava e la osservava farneticare e ondeggiare febbricitante da un lato all'altro della casa. Puzzava già di alcol e sigarette o forse era solo il lascito della sera precedente. 
Calzini sporchi e spaiati. Le 9 e 33, la sveglia che non è ancora suonata-eppure-l'ho-puntata. Tutto sbagliato.
-“Che hai?”
-“Niente. Sono in ritardo. La sveglia non ha suonato”
- indaffarata, gli avrebbe risposto qualsiasi cosa pur di spicciarsi e andarsene per la sua strada, in attesa di un altro incontro casuale.
-"Ma non è vero."- sorrideva, in quel suo modo arrogante, passando una mano tra i capelli e stropicciando la barba incolta cresciuta sul mento e troppo pigro per darsi una ripulita, o semplicemente infilarsi le mutande.
-"Vestiti. Non ti lavi mai la mattina. Mi fai schifo."
-"Quello che hai lo so benissimo:Hai che mi ami e non sei ricambiata,hai che piangi e non puoi dirmelo o penseresti d'essere ridicola e ti allontaneresti...hai che amo sempre gli altri e non mi accorgo mai di te.. o è questo quello che ti piace pensare."

Lei aveva già infilato la maglietta, però. Lui era di spalle e non poteva accorgersene, che avrebbe parlato per metà tempo con un muro, con un fantasma che se n'era già andato in un'altra dimensione.
-"Ti stai confondendo. Quello sei tu. T'ho fatto il caffè."- saltellava nel tentativo impacciato di infilarsi lo stivale.
E lei chiedeva soltanto che lui la prendesse tra le mani e la portasse via, lontano, per renderla felice, per essere felice.
-"Ci vediamo domani?"
-"No, ho l'agenda piena."-
Lei la felicità l’aveva incontrata una sola volta e se l’era tenuta stretta, tanto che forse l’aveva soffocata e piano piano le era scivolata via. Rivoleva quella sensazione in petto, nello stomaco, nelle gambe che tremano, in tutto il corpo ma lui non capiva.

-"Allora chiamami tu." 
Lui la prese e poi piano piano allentò la presa.
Non capiva dove volesse andare, che posto lei intendesse, cosa voleva per essere felice. Lui non se ne accorse mai, ma il luogo che voleva lei per essere felice erano le sue braccia, il suo corpo, quel piccolo angolo di paradiso con il suo retrogusto amaro. Lei non chiedeva molto e lui si fece scappare quel tanto che lei era e che poteva dare.
Apparentemente era serena, ma bastava avvicinarsi per avvertire che dentro di lei infuriava la tempesta.
-"Non soffocarmi. Il caffè si fredda. Ci vediamo."

Battè la porta alle sue spalle. Lui non l'avrebbe inseguita, lo sapeva, sarebbe tornato a dormire. L'avrebbe lasciata fare, convinto che prima o poi l'avrebbe ripresa, da qualche parte, l'avrebbe ritrovata e sarebbe stata ancora sua, senza bisogno d'appuntamenti, senza bisogno di tenersi ancorati, avvinghiati l'uno all'altro, ognuno libero di respirare la sua aria.
E lei lo voleva lo stesso, con o senza amore.


mercoledì 10 aprile 2013

Find the difference.



...l’amore è per definizione un dono non meritato; anzi, l’essere amati senza merito è la prova del vero amore [...] Quanto è più bello sentirsi dire: sono pazza di te sebbene tu non sia né intelligente né onesto, sebbene tu sia bugiardo, egoista e mascalzone.



Lei gli domandò in quei giorni se era vero, come dicevano le canzoni, che l’amore poteva tutto.
- E’ vero - le rispose lui - Ma farai bene a non crederci.
Le disse che l’amore era un sentimento contro natura, che dannava due sconosciuti a una dipendenza meschina e insalubre, tanto più effimera quanto più intensa.

***


Avevo avuto modo di riflettere a come accadono le cose, a come sottili equilibri vengono meno quando messi a nudo difronte all'insostenibile pesantezza del sentimento. Mi chiedevo se fosse giusto credere che l'odio potesse essere frutto dell'amore (Nota: amore, amore, amore. E' una parola che più la ripeti e più perde significato) -se fossi ancora in grado di riuscire a provare qualcosa di lontanamente simile ad uno dei due, ritrovandomi con un po' d'ansia addosso, a constatare che la Morte era riuscita inesorabilmente a togliermi la capacità di farlo.
C'era Joe, affondato e inerme sul letto di un'infermeria all'interno della Base Alleata di Greenfield, catturato dopo l'ennesimo e disperato tentativo suicida di porre fine alla mia esistenza. Ironico.
Mi ritrovavo a pensare di non poter biasimare quell'uomo, di riuscire a vederlo solo specchio di me qualche mese addietro, quando anch'io misi a repentaglio ogni briciola di me. Sola, con la mia brama.
Neville, che avevo tanto amato, ora così insignificante... così poco importante. Contro ogni aspettativa, non sono migliore. Semplicemente identica. Semplicemente, follemente, destinata allo stesso destino che era toccato a Joe e ad altri, insieme a lui.
Dovevo avere solo nemici da odiare, e non nemici da disprezzare: dovevo essere orgogliosa del mio nemico... e lo ero, in qualche strano modo.
Attraversare "quella soglia", quella linea di demarcazione, al di là di ciò che sembrava impossibile. Superare il limite. Andare oltre. Sforare, sicura che non sarei più potuta tornare indietro, qualsiasi cosa fosse successo in quella stanza d'ospedale. Qualsiasi sguardo mi avesse riservato Joe Black, lo avrei accettato. Non avrebbe fatto alcuna differenza, per me.
Il suo odio o il suo amore, erano lo stesso. Li avrei sopportati. Accettati, entrambi. Ma non avrei mai accettato la sua indifferenza. La stessa indifferenza che ero riuscita a riservargli nel tempo, schivando i colpi, lasciando scivolare addosso l'odio che mi aveva scagliato contro come gocce di pioggia in mare, accogliendolo come fosse sabbia ad ogni onda. Immobile. Come una stella fissa che la si può solo guardare da lontano, a miliardi di anni luce di distanza. Sempre troppo avanti.
Ora, in quella stanza, lui era me ed io ero lui. Non c'era il mio nemico a giacere sul fondo di un letto con la carne maciullata e qualche osso fuori posto: c'ero io, che mi guardavo, che sorridevo di me, delle mie idiozie, delle mie lotte passeggere. C'ero io che muovevo le labbra, che respiravo, che digrignavo forte i denti. Che soffrivo in silenzio. E lui era lì, in piedi, le braccia incrociate, preoccupandosi solo di chiedere se fosse possibile fumare, con aria saccente e menefreghista. Lui era lì, difronte a me, con la mia cravatta al collo, la mia giacca firmata, la droga in corpo e il cuore sempre troppo stretto. E la mia pistola nella fondina.
Mi ritrovavo a pensare alle possibilità. A come Joe avrebbe utilizzato quella pistola, se su quel letto fossi stata costretta io, al posto suo. A fare i conti con la certezza che l'avrebbe estratta e me l'avrebbe puntata contro -BANG-BUIO-FINE DEI GIOCHI-ADDIO.
Mi ritrovavo a pensare che, forse non avrei fatto diversamente, se quella pistola fosse rimasta ad attendere nella mia fondina. Era solo una questione di equilibri. Di prospettiva.


lunedì 25 marzo 2013

Sotto un'unica bandiera.



A quel tempo si usava incontrarsi nei pressi della cava di carbone abbandonata, solo perché coi resti della polvere che di tanto in tanto macchiava l’erba secca, ci si poteva sporcare il viso e giocare ai soldati, a fare la guerra, come ci avevano insegnato i nostri padri infami morti chissà dove, alcuni vivi e troppo codardi per fare lo stesso.

Avevo preso l’abitudine di colorarmi le guance di nero disegnando sottili strisce parallele sulle gote e sulla fronte. A Stevens piaceva passare le mani sporche lungo tutto il viso, in verticale, tracciando come artigli dalle tempie alle mascelle ancora troppo acerbe, sbarbate. A Emile non piaceva sporcarsi la faccia, perché il padre non voleva, però portava una bandana rossa a coprire parte del viso minuto, perennemente imbronciato. Johanne, invece, portava frutta, patate lesse, pane duro: quello che riusciva a rubare dalla credenza alla madre tirchia che gestiva l’unico spaccio rimasto in piedi. Si prendeva cura di noi mentre eravamo in “guerra”, cauterizzando le sbucciature sulle ginocchia come poteva, e spesso evitando che ci cavassimo gli occhi per sbaglio. La gonna lunga di Johanne aveva sempre fantasie floreali, e chissà perché, me la ricordo fin troppo bene.

Era l’unica che alla fine rimaneva sempre pulita.

Quel giorno ero stata la prima ad arrivare –evento raro, unico nel suo genere-. Aspettavo Johanne, Stevens, Emile, con un’ansia sempre crescente nel cuore che facevo fatica a tenere a bada. Mi ero già sporcata la faccia per evitare di perdere tempo durante l’attesa. Avevo indossato gli stivali della mamma, più grandi di qualche misura, ma ancora interi e per questo non da buttare. Emile mi raggiunse poco dopo, con la sua bandana rossa.

All’appello mancavano solo Stevens e Johanne, che di solito erano sempre i primi e arrivavano insieme perché abitavano nella stessa strada.
Ricordo che guardai Emille con una punta di apprensione che non riuscivo ancora a mascherare del tutto. Lui non sorrideva mai, credo che abbia imparato a farlo da quel giorno in poi.
Sono sicura di non averlo mai visto piangere.

-Sono in ritardo. Se fossimo stati in guerra davvero a quest’ora saremmo morti.
-Noi siamo in guerra davvero
.- Osservò Emile, con la solita freddezza.
-E allora è ancor più grave. Dove sono?-
-Si saranno fermati da Johanne. Sai che sua madre è sempre tanto apprensiva…-
-Perderemo la guerra. Moriremo. Non glie lo perdonerò mai. –Insistetti. Tirai fuori dalla fondina la pistola che mi aveva regalato papà. Non avevo i proiettili, però, perché costavano troppo, e comunque affrontavo la questione con una buona dose di serietà.

Passò qualche ora. Io ed Emile eravamo stanchi d’aspettare in piedi e ci eravamo seduti all’imbocco della cava, anche se suo padre si sarebbe arrabbiato per lo sporco sui pantaloni. Io non riuscivo più a trattenermi. Ero furibonda: avremmo perso la guerra e Johanne e Stevens erano chissà dove a pomiciare.
Emile se ne stava insolitamente silenzioso, immerso nei suoi pensieri.

-Basta. Io me ne torno a casa. Si sta facendo buio.- Ruppi il silenzio sgarbatamente, borbottando adirata.
Emile non rispose. Si limitò a guardarmi come volesse aggiungere qualcosa, per poi ripensarci e tornare a fissare il buio annuvolato di polveri sottili della cava.
-Che c’è?!- Lo interrogai, brusca. Ce l’avevo con Johanne per essere sempre così carina. Piaceva a Stevens più di quanto potessi piacergli io, ed ero certissima che quell’assenza fosse dovuta a quello.
Emile non rispose subito. Mi guardò ancora una volta, e si decise a parlare solo quando feci per girare sui miei tacchi, esasperata, per tornarmene a casa. Si alzò di scatto, alle mie spalle. Potevo percepirne il tremolio delle braccia tese anche a distanza.
Mi fece paura.

-E se fosse successo qualcosa?- Non avevo mai sentito Emile parlare così.
-Cosa…? – Conoscevo già la risposta, ma avevo paura d’ammetterlo, e comunque non gli avrei mai dato la soddisfazione di mostrarmi preoccupata per Johanne, o tanto meno per Stevens.
-…- mi guardò silenzioso. Potevo sentirne lo sguardo rancoroso posarsi sulle mie spalle, senza guardarlo. Mi voltai in ritardo, solo dopo qualche istante. Fissai gli occhi in quelli di lui. Entrambi sapevamo che l’altro sapeva di cosa si stava parlando, ma nessuno ebbe il coraggio di affermarlo apertamente.
Scossi il capo, con secchezza, con convinzione.
-Non dire scemenze… lo sai che Johanne…- lasciai in sospeso la frase. Non sapevo. Non sapevo niente.

Mi voltai. Volevo andarmene. Volevo tornare a casa. Ero stanca. Ero sporca. Ero arrabbiata.
Era buio, nella campagna. Faceva freddo. Qualcosa si mosse nell’erba secca e incolta, ed ebbi un sussulto.
Sollevai la pistola. La puntai nel buio. Emile fece lo stesso un attimo dopo, ma era armato di coltello.

-Chi è là?!- urlai. Tentavo di trattenere il respiro, di affinare i sensi come mi aveva insegnato a fare mio padre. Tentai di controllare il tremolio delle mani, della voce. Tentai di controllare i battiti del cuore.
Niente. Ancora qualche suono. Poi nient’altro.
Guardai Emile, che annuì, segno che aveva compreso il da farsi. Era già pronto ad abbassarsi e strisciare al suolo, così come avevamo stabilito durante le esercitazioni, prendendo copertura dietro un cumulo di rocce abbastanza alto da celarne la figura minuta per intero. Io avanzavo nell’erba, sprezzante del pericolo, incurante che la pistola che impugnavo tra le mani non era altro che un giocattolo. E di nuovo.

-Chi è là?! Un passo falso e sparo!- secca, arida. La voce acuta era poco più che quella di una bambina. Ero una bambina, in fin dei conti.

Dai cespugli sbucò fuori la testa bionda di Stevens, ed io tornai a tremare per un istante, mentre un brivido freddo mi percorreva la schiena nel constatare che la sua faccia era gonfia di lividi, di sangue raggrumato in piccoli tagli verticali. Un occhio era più gonfio dell’altro, e non aveva addosso niente, se non un paio di brandelli di pantaloni rimasti attaccati alle gambe scavate da bruciature profonde.
Sgranai gli occhi, deglutendo a vuoto. Emile balzò fuori dal suo nascondiglio, mentre Stevens, poco più alto e grande di noi, ci barcollava incontro tenendo in mano il suo coltello da caccia come unico baluardo di difesa contro il mondo che gli aveva fatto quello.

-Do… dov’è Johanne…?- sussurrai in un singhiozzo, rapida, trattenendo lo sgomento, la rabbia che iniziava a scalpitare dentro al petto. Le nocche sbiancavano attorno al calcio della pistola giocattolo. Sentii Emile avvicinarsi alle mie spalle, con la stessa aspettativa stampata negli occhi chiari.

Stevens ci guardava, ma non ci stava vedendo realmente. Aveva negli occhi qualcosa di terribile. Avrebbe pianto, se la polvere che gli incrostava gli occhi non glie l’avesse impedito. La cenere gli impastava le ferite sulla faccia resa scura. Scosse il capo una sola volta, prima di crollare sulle sue ginocchia bruciate, svenuto.
Poco dopo scoprimmo che si era dovuto trascinare fin lì per chissà quanto tempo, da solo,  con la morte stretta nel cuore, semplicemente per assicurarsi che noi fossimo vivi.

Johanne, non era stata così fortunata.

Quando la seppellirono indossava la sua gonna a fiori gialli. I capelli rossi erano rimasti intatti. La madre li aveva acconciati con cura in una treccia come faceva di solito, nonostante del suo bel viso lentigginoso non era rimasto che un cumulo di carne maciullata. Le mancavano le gambe, ma la gonna riusciva ancora a darci il barlume di quel corpo per intero.

Riuscivo ancora a sentirne la voce gentile risuonare in sottofondo. Ridere. Le sue gambe saltarci appresso per non rimanere indietro, per via della gonna che le impediva di muoversi come si deve. Riuscivo a vedere quelle sue piccole mani pulite tirare fuori dalla borsa la roba che aveva rubato alla madre strappandole qualche ceffone di cui mostrava fiera i lividi sulla guancia, come fosse anche lei una guerriera come noi.

Johanne  era morta schiacciata sotto le macerie della drogheria che era stata distrutta dall’ennesima ondata di bombardamenti. Aveva tredici anni.
Riuscivo ad immaginarmela protesa verso la credenza in punta di piedi, contando i secondi che passavano con inesorabile velocità prima che la madre tornasse in cantina a controllare che non stesse rubando per l’ennesima volta qualcosa per noi.
La gonna di Johanne diventò la nostra bandiera.
Il motivo portante della nostra rabbia.

L’ideale, per cui avremmo per sempre combattuto.

lunedì 18 febbraio 2013

Great Big White World.

La droga è il modo che ha Dio di dirti che stai facendo troppi soldi.


Non c'è sole a sorgere oltre l'oblò della stanzetta in acciaio in cui riposa Electra Williams.
Come ogni mattina ha lavato la faccia, ha indossato la camicia, la giacca, i pantaloni maschili. La fondina ascellare accuratamente riempita riposa sotto il soprabito nero.
Stese una sottile striscia di polvere bianca sull'asettico acciaio del tavolo da pranzo e arrotolò una banconota da cinquanta dollari, nuovi di zecca. Era ormai diventata un'abitudine quotidiana a cui non poteva rinunciare.
Quella roba le dava un senso di conforto e di sollievo. Era più lucida e più socievole. A lavoro rendeva di più. Instancabile, avrebbe anche potuto fare a meno della pausa pranzo, quel giorno.
Raccolse gli ultimi granelli strappati alle narici dilatate e brucianti con un polpastrello inumidito di saliva, e lo passò sulle gengive arrossate con perizia chirurgica. Tirò indietro la testa, buttando gli occhi lucidi e liquidi al soffitto, risucchiando aria dal naso e incurvando la schiena ossuta, scrocchiando le vertebre intorpidite dal poco riposo.
Ora poteva affrontarli. Niente e nessuno l'avrebbe scalfita.
Lei era la Regina dello Spazio e questo non sarebbe cambiato.
Tutti avrebbero tremato.
Lucida come poche altre volte, attraversò la porta scorrevole che la separava dal suo piccolo, grande e bianco mondo, per mischiarsi al brulichio di anime e fantasmi laboriosi.
Ming Li l'attendeva al Roadhouse, e per quanto detestasse dal profondo avere a che fare con quel genere di donna, si sarebbe presentata. Aveva fatto preparare un grazioso separè in carta di riso e il più elegante servizio da the del saloon affollato. Riusciva nitidamente a percepire la tensione e il timore negli occhi stretti dell'orientale e come al solito si sarebbe crogiolata in quella sensazione d'onnipotenza facendo finta di niente.
Si sarebbe vestita di indolenza e sorrisi artificiali. Avrebbe ammiccato all'etichetta semi-corer che era riuscita ad imparare frequentando gente come Donna Winter e Brent Ratliff. Sapeva imitare alla perfezione quei modi affettati, per quanto caricaturali potessero risultare nell'inglese stropicciato e distratto che era solita biascicare tra una sigaretta e l'altra.
Ancora una volta avrebbe speso fiato e parole in discorsi che non le importavano se non in minima parte.
Ancora una volta avrebbe mentito a se stessa e agli altri.
Ancora una volta avrebbe indossato la maschera e si sarebbe chiesta perchè non riuscisse ad essere quel che è realmente al cospetto di nessuno che non fosse Louell e i suoi baffi spessi e strambi.
Aveva acceso una sigaretta che si consumava tra le labbra. Non fumava perché era nervosa. 
Lo era, questo non poteva negarlo, ma fumava perché la meccanica dei gesti che facevano bruciare la sua Black Mamba e riempivano di catrame i suoi polmoni, le teneva la testa occupata.
Tornata in stanza dopo il colloquio snervante con Ming Li era rimasta immobile sulla soglia, fissando il piumone che si confondeva sul materasso, in una sorta di burrasca di microfibra. 
Ed immobile fissava quel caos che era lei, guardandosi in uno specchio che la rifletteva distorcendola.

***


Al suo capezzale si erano alternati colleghi, Bernardo in primis. Aveva dormito sulla poltrona d’antracite ed aveva usato i suoi giorni di ferie per stare accanto al suo letto, a carezzarle la fronte e spettinarle i capelli. Al suo risveglio era stata la prima persona che aveva visto, la prima persona a cui aveva sorriso, che le aveva parlato, sussurrandole qualcosa che non era riuscita a capire. 

Della Morte non ricordava nulla. Non aveva memoria di niente. Di un solo attimo. Faceva persino fatica a ricordare il chiodo che le aveva trapassato il cranio, ma attraverso i racconti ed i verbali redatti dai colleghi la sua mente era riuscita a ricostruire quello scenario ed  era riuscita ad associare al suo incubo suoni, sfumature e volti. Anche solo immaginari. Il volto di Neville che la guardava, ad esempio, le appariva chiaro, retroilluminato.

Suo padre non era mai venuto a farle visita.
Ma non era stata una sua scelta.

Le avevano dato la notizia del suo assassinio appena era divenuta sufficientemente lucida da comprenderla. Aveva reagito calandosi in un altro coma, quella volta in maniera del tutto volontaria. 
Il suo personale coma dei sensi e della parola. 
Non provava niente. 
Non parlava mai. 
Se ne stava muta, senza dire una singola frase o emettere un solo suono. 
Non aveva mangiato per due giorni. Quando riceveva visite si eclissava, fingendosi stanca o dormiente. 
Bernardo rispettava, comprendeva e sopportava quel suo silenzio.

*** 


Louell vestiva sempre in maniera elegante. 
Ogni giorno aveva un abito diverso, un colore differente che indossava con la disinvoltura di un quindicenne. 

Aveva un sorriso leggero, stretto in labbra sottili, appena vivacizzato da una linea arzigogolata di baffi allinsù. Si muoveva con delicatezza, come chi sa cosa può permettersi. Aveva piena consapevolezza dell’uomo che era, ed appariva chiaro a chiunque, anche dopo una sola occhiata, che doveva essere un ragazzo dalla bellezza eccezionale.
Le sistemava le coperte, riattaccava il cerotto che teneva ferma la flebo, le dava un bacio sulla fronte. 
Poi sedeva su una sedia accanto al lettino e guardava il monitor, osservando la vita di Electra Williams attraverso quella sequenza di picchi verdastri, come se cercasse in quel “bip” le risposte che lei non gli dava.  
Le raccontava storie divertenti tirate fuori sul momento.
Lei si chiedeva cosa facesse prima e dopo. Come si sentisse nella sua casa magari grande e così vuota. 
Si rimproverava, di non ricordare, di tanto in tanto, i suoi “no” alle richieste di lui, in un passato non troppo lontano.
In quei giorni si era sentita vecchia. 
Aveva nelle vene la pesantezza dei suoi ventiquattro anni, che non mollava il sangue, che la trascinava in un vortice di stanchezza perenne. Eppure quando era con lui, con Lou, quella sensazione svaniva. 
Tornava ad essere semplicemente lei, sua, e questo la faceva stare meglio in un certo modo.

***

Ciondolava da una parte all’altra della stanza. Il suo sorriso stentato illuminava più del sole che si affacciava da dietro le tende, facendosi largo a fatica attraverso la tarda mattinata. 
Canticchiava , con una voce particolarmente intonata ed attenta agli accenti. 
Non riusciva a pronunciare bene la “erre”, ed al suo posto metteva un suono trascinato e liquido.
Era a casa.

Era una sera di fine Febbraio. Il calendario non mentiva.  Il ventidue del mese cerchiato in rosso. Una nota nelle due righe sottostanti: “Chiamare avvocato”. 
Il sogno ti lascia sempre immersa in un limbo di incertezza. Nel dubbio che sia la tua realtà ad essere frutto dell’immaginazione, mentre lui, il respiro del tuo subconscio, è come realmente stanno le cose, come, per davvero, appari agli occhi degli altri ed ai tuoi. 

Era la prima volta che sognava dopo quel sabato.

Lei era in piedi, in cucina. Le finestre avevano gli scuri chiusi e la luce elettrica della lampadina a basso consumo colorava l’ambiente di un giallo pallido. Era in piedi. Sorrideva. Si muoveva piano, incerta come i bambini che hanno da poco smesso di gattonare. La tavola era apparecchiata, per quattro, ed i fornelli erano ingombri di scodelle. Probabilmente c’era anche qualche odore, ma quello le sfuggiva. 
Indossava una maglia viola, con un disegno stilizzato, un paio di bermuda neri ed ai piedi aveva rumorosissimi stivali. 
I suoni erano ovattati, ma li percepiva. 

La voce roca del fuoco che scaldava le pentole, la melodia di Only You sputata dall’impianto stereo del soggiorno, il tambureggiare del suo cuore, incredibilmente ritmico. 
La disposizione dei mobili era quella della mattina della sua morte. Sulla bacheca di sughero c’erano gli ultimi scontrini e le buste chiuse delle bollette. In basso, sulla sinistra, c’era un biglietto. Era per il suo compleanno. C’era un pagliaccio che usciva da un pacco regalo disegnato sul fronte, mentre il retro era occupato da uno smile. All’interno qualche parola, abbandonata sulla carta lucida da una biro blu che non aveva macchiato. Aveva riconosciuto la scrittura. Neville. 
In quel preciso momento, il dubbio del sogno era scomparso. Lei sapeva che stava sognando. Sapeva che era morta. Sapeva che ciò che vedeva era un proiezione irreale. Lo sapeva, ne aveva coscienza, e piangeva. Immobile. Piangeva come chi si sente impotente di fronte alle immagini sacre. Piangeva in silenzio, leccando le lacrime che le tagliavano in due le guance. 



Sorrideva, assottigliando lo sguardo come per riparasi dal sole di un Agosto lontano. Aveva percepito un leggero bruciore agli occhi, ed aveva pensato che era quella la sensazione che si doveva provare quando non si mentiva ammettendo di avere paura.

Un'altra striscia. Ancora una.

Anche quella notte cercò inutilmente di chiudere occhio.


sabato 9 febbraio 2013

The Rebirth

Forever mad, forever kill, forever alone.


Si sbagliavano.
Niente è per sempre. Nemmeno la Morte.


Li senti sussurrare come spie, filtrare come spifferi fastidiosi sul collo. Loro pensano d'esser discreti. Loro pensano che tu non te ne accorga.
"E' quella pazza della Williams."
Io sorrido. Che pensino quel che preferiscono, poveri idioti. 
Io so la verità.
Non è follia quella che mi ha spinta a togliere la vita di due sedicenti innocenti. Nessuno lo è. Ci sono solo certi che hanno la presunzione d'essere giudici di se stessi, e giudicarsi puliti.
Non è follia quella che mi ha convinta a prendere in mano le mie responsabilità, andando incontro a morte certa per salvare la vita di qualcun'altro, che IO ho giudicato esser innocente e pulito.
I folli agiscono senza alcuna razionalità, io, al contrario, conosco benissimo le conseguenze delle mie azioni, ma non ho mai considerato quelle conseguenze ragioni sufficienti per non andare fino in fondo. E quando poi mi sento sussurrare addosso da quelle stesse voci -"Tu sei una pazza, Williams. Le tue azioni sono...folli"- allora non posso che sorridere di loro, biasimarli, e fargli notare che la loro -di follia-, non è tanto diversa dalla mia.
Solo che io non mi nascondo dietro un dito.
Non fingo atti eroici, nè giustifico d'essermi sporcata le mani per una "buona causa". Non esistono buone cause. La Vita di ognuno di noi, dal più ricco al più povero degli stronzi, è sempre più importante, di qualsiasi fottutissima ragione.
Ciò nonostante: Vendetta. La madre di ogni omicidio ben orchestrato. Vendetta chiama Vendetta e non sarà sazia finchè non avrà quadrato i conti.
Loro pensavano che il mio duplice assassinio avesse quadrato i miei, ma no. Per farlo avrei dovuto uccidere Black, poi Neville, poi entrare in quella loro fottutissima bagnarola e far saltare in aria anche quella. Allora, saremmo stati pari... quel che si dice "quadratura". Ma non l'ho fatto. Folle? Può darsi. Forse ho solo compreso che la Vendetta è circolo vizioso in cui non si smette di scendere in basso, finchè tutte le pedine della scacchiera non si sono divorate a vicenda.
Oppure, forse, ho solo capito d'aver vinto.


martedì 8 gennaio 2013

Requiem-Nihil.

 [La pagina è un insieme di stralci confusi e disordinati. Accumuli di frasi febbricitanti senza alcun nesso logico apparente. Appunti, annotazioni, massime, riflessioni scritte di getto.]

"Bisogna avere un Caos dentro di sè, per generare una stella danzante."

-Colui che finalmente si accorge quanto e quanto a lungo fu preso in giro, abbraccia per dispetto anche la più odiosa delle realtà; cosicché, considerando il corso del mondo nel suo complesso, la realtà ebbe sempre in sorte gli amanti migliori, poiché i migliori furono sempre e più a lungo burlati -

(Nietzsche, filosofo della Terra-che-Fu.)


Quanto è più profondo l'Amore, tanto è più grande la Crudeltà che da esso può trarne vantaggio.
L'Odio, la follia, l'omicidio, la depravazione e il Male: questo è il germoglio che nasce dal seme di un cuore che ama.
Il Niente prende il posto del Tutto, ogni cosa perde di importanza. La vita non è che una banale virgola a confronto.
Non ho colpa di questo, quanto, la colpa e il peccato sono fiori che nascono nell'uomo quand'egli si abbandona alla Pietà e all'affetto, scoprendosi vulnerabile agli occhi degli altri.
Non amare, dunque, per non odiare e non generare rancore nel prossimo, non generare peccato e non generare possessione e volontà di vendetta.
Il Nulla. Abbandonarsi al Niente è l'unica via di salvezza a cui devo tendere, per raggiungere la Perfezione.
Sia dannata dunque l'anima che ama, perchè ad essa sarà data la punizione dell'errore.
Non amare e non sbagliare. 
Il Giusto riposa nelle cose al di sopra dell'uomo.

Vivere con immensa e superba imperturbabilità; sempre al di là.