sabato 13 aprile 2013

Gone.



Tra di loro c'era sempre questa strana cosa, nell'aria. 
Questo gioco. Questa sensazione. Questo patto muto. Questo accordo non scritto.
Se lei era in un posto, lui era all'altro capo. 
Se lei s'avvicinava, l'altro se ne andava, ma quando poi si voltava a constatare se lei fosse ancora lì, a seguire come un segugio minuzioso i suoi passi, era già troppo tardi. Lei non c'era più.
Però, quando riuscivano ad incontrarsi in luoghi e in orari stabiliti dal caso o dal destino o dall'odore, allora tutto aveva un senso. Le strade percorse. I chilometri a piedi. Le ore d'attesa, non erano più tutte vane.
Quella notte s'erano strappati la carne a vicenda. Impossibile dire se stessero lottando o scopando così forte da dimenticare d'avere un corpo e da farsi schifo. Era quella la sensazione che provava ogni volta che gli sedeva a fianco, sul bordo del letto, senza darsi il tempo di riprendere fiato o di chiudere occhio come invece aveva ben pensato di fare lui. 
Nauseata. Vuota. 
Si trascinava stanca e riottosa, tirandosi in piedi con quella voglia di scappare che le faceva fremere le gambe, tremare le mani per l'impazienza, cercare spasmodica i pantaloni gettati alla rinfusa in qualche angolo di quella stanza.
Troppo tardi, lui si svegliava e la osservava farneticare e ondeggiare febbricitante da un lato all'altro della casa. Puzzava già di alcol e sigarette o forse era solo il lascito della sera precedente. 
Calzini sporchi e spaiati. Le 9 e 33, la sveglia che non è ancora suonata-eppure-l'ho-puntata. Tutto sbagliato.
-“Che hai?”
-“Niente. Sono in ritardo. La sveglia non ha suonato”
- indaffarata, gli avrebbe risposto qualsiasi cosa pur di spicciarsi e andarsene per la sua strada, in attesa di un altro incontro casuale.
-"Ma non è vero."- sorrideva, in quel suo modo arrogante, passando una mano tra i capelli e stropicciando la barba incolta cresciuta sul mento e troppo pigro per darsi una ripulita, o semplicemente infilarsi le mutande.
-"Vestiti. Non ti lavi mai la mattina. Mi fai schifo."
-"Quello che hai lo so benissimo:Hai che mi ami e non sei ricambiata,hai che piangi e non puoi dirmelo o penseresti d'essere ridicola e ti allontaneresti...hai che amo sempre gli altri e non mi accorgo mai di te.. o è questo quello che ti piace pensare."

Lei aveva già infilato la maglietta, però. Lui era di spalle e non poteva accorgersene, che avrebbe parlato per metà tempo con un muro, con un fantasma che se n'era già andato in un'altra dimensione.
-"Ti stai confondendo. Quello sei tu. T'ho fatto il caffè."- saltellava nel tentativo impacciato di infilarsi lo stivale.
E lei chiedeva soltanto che lui la prendesse tra le mani e la portasse via, lontano, per renderla felice, per essere felice.
-"Ci vediamo domani?"
-"No, ho l'agenda piena."-
Lei la felicità l’aveva incontrata una sola volta e se l’era tenuta stretta, tanto che forse l’aveva soffocata e piano piano le era scivolata via. Rivoleva quella sensazione in petto, nello stomaco, nelle gambe che tremano, in tutto il corpo ma lui non capiva.

-"Allora chiamami tu." 
Lui la prese e poi piano piano allentò la presa.
Non capiva dove volesse andare, che posto lei intendesse, cosa voleva per essere felice. Lui non se ne accorse mai, ma il luogo che voleva lei per essere felice erano le sue braccia, il suo corpo, quel piccolo angolo di paradiso con il suo retrogusto amaro. Lei non chiedeva molto e lui si fece scappare quel tanto che lei era e che poteva dare.
Apparentemente era serena, ma bastava avvicinarsi per avvertire che dentro di lei infuriava la tempesta.
-"Non soffocarmi. Il caffè si fredda. Ci vediamo."

Battè la porta alle sue spalle. Lui non l'avrebbe inseguita, lo sapeva, sarebbe tornato a dormire. L'avrebbe lasciata fare, convinto che prima o poi l'avrebbe ripresa, da qualche parte, l'avrebbe ritrovata e sarebbe stata ancora sua, senza bisogno d'appuntamenti, senza bisogno di tenersi ancorati, avvinghiati l'uno all'altro, ognuno libero di respirare la sua aria.
E lei lo voleva lo stesso, con o senza amore.


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