lunedì 25 marzo 2013

Sotto un'unica bandiera.



A quel tempo si usava incontrarsi nei pressi della cava di carbone abbandonata, solo perché coi resti della polvere che di tanto in tanto macchiava l’erba secca, ci si poteva sporcare il viso e giocare ai soldati, a fare la guerra, come ci avevano insegnato i nostri padri infami morti chissà dove, alcuni vivi e troppo codardi per fare lo stesso.

Avevo preso l’abitudine di colorarmi le guance di nero disegnando sottili strisce parallele sulle gote e sulla fronte. A Stevens piaceva passare le mani sporche lungo tutto il viso, in verticale, tracciando come artigli dalle tempie alle mascelle ancora troppo acerbe, sbarbate. A Emile non piaceva sporcarsi la faccia, perché il padre non voleva, però portava una bandana rossa a coprire parte del viso minuto, perennemente imbronciato. Johanne, invece, portava frutta, patate lesse, pane duro: quello che riusciva a rubare dalla credenza alla madre tirchia che gestiva l’unico spaccio rimasto in piedi. Si prendeva cura di noi mentre eravamo in “guerra”, cauterizzando le sbucciature sulle ginocchia come poteva, e spesso evitando che ci cavassimo gli occhi per sbaglio. La gonna lunga di Johanne aveva sempre fantasie floreali, e chissà perché, me la ricordo fin troppo bene.

Era l’unica che alla fine rimaneva sempre pulita.

Quel giorno ero stata la prima ad arrivare –evento raro, unico nel suo genere-. Aspettavo Johanne, Stevens, Emile, con un’ansia sempre crescente nel cuore che facevo fatica a tenere a bada. Mi ero già sporcata la faccia per evitare di perdere tempo durante l’attesa. Avevo indossato gli stivali della mamma, più grandi di qualche misura, ma ancora interi e per questo non da buttare. Emile mi raggiunse poco dopo, con la sua bandana rossa.

All’appello mancavano solo Stevens e Johanne, che di solito erano sempre i primi e arrivavano insieme perché abitavano nella stessa strada.
Ricordo che guardai Emille con una punta di apprensione che non riuscivo ancora a mascherare del tutto. Lui non sorrideva mai, credo che abbia imparato a farlo da quel giorno in poi.
Sono sicura di non averlo mai visto piangere.

-Sono in ritardo. Se fossimo stati in guerra davvero a quest’ora saremmo morti.
-Noi siamo in guerra davvero
.- Osservò Emile, con la solita freddezza.
-E allora è ancor più grave. Dove sono?-
-Si saranno fermati da Johanne. Sai che sua madre è sempre tanto apprensiva…-
-Perderemo la guerra. Moriremo. Non glie lo perdonerò mai. –Insistetti. Tirai fuori dalla fondina la pistola che mi aveva regalato papà. Non avevo i proiettili, però, perché costavano troppo, e comunque affrontavo la questione con una buona dose di serietà.

Passò qualche ora. Io ed Emile eravamo stanchi d’aspettare in piedi e ci eravamo seduti all’imbocco della cava, anche se suo padre si sarebbe arrabbiato per lo sporco sui pantaloni. Io non riuscivo più a trattenermi. Ero furibonda: avremmo perso la guerra e Johanne e Stevens erano chissà dove a pomiciare.
Emile se ne stava insolitamente silenzioso, immerso nei suoi pensieri.

-Basta. Io me ne torno a casa. Si sta facendo buio.- Ruppi il silenzio sgarbatamente, borbottando adirata.
Emile non rispose. Si limitò a guardarmi come volesse aggiungere qualcosa, per poi ripensarci e tornare a fissare il buio annuvolato di polveri sottili della cava.
-Che c’è?!- Lo interrogai, brusca. Ce l’avevo con Johanne per essere sempre così carina. Piaceva a Stevens più di quanto potessi piacergli io, ed ero certissima che quell’assenza fosse dovuta a quello.
Emile non rispose subito. Mi guardò ancora una volta, e si decise a parlare solo quando feci per girare sui miei tacchi, esasperata, per tornarmene a casa. Si alzò di scatto, alle mie spalle. Potevo percepirne il tremolio delle braccia tese anche a distanza.
Mi fece paura.

-E se fosse successo qualcosa?- Non avevo mai sentito Emile parlare così.
-Cosa…? – Conoscevo già la risposta, ma avevo paura d’ammetterlo, e comunque non gli avrei mai dato la soddisfazione di mostrarmi preoccupata per Johanne, o tanto meno per Stevens.
-…- mi guardò silenzioso. Potevo sentirne lo sguardo rancoroso posarsi sulle mie spalle, senza guardarlo. Mi voltai in ritardo, solo dopo qualche istante. Fissai gli occhi in quelli di lui. Entrambi sapevamo che l’altro sapeva di cosa si stava parlando, ma nessuno ebbe il coraggio di affermarlo apertamente.
Scossi il capo, con secchezza, con convinzione.
-Non dire scemenze… lo sai che Johanne…- lasciai in sospeso la frase. Non sapevo. Non sapevo niente.

Mi voltai. Volevo andarmene. Volevo tornare a casa. Ero stanca. Ero sporca. Ero arrabbiata.
Era buio, nella campagna. Faceva freddo. Qualcosa si mosse nell’erba secca e incolta, ed ebbi un sussulto.
Sollevai la pistola. La puntai nel buio. Emile fece lo stesso un attimo dopo, ma era armato di coltello.

-Chi è là?!- urlai. Tentavo di trattenere il respiro, di affinare i sensi come mi aveva insegnato a fare mio padre. Tentai di controllare il tremolio delle mani, della voce. Tentai di controllare i battiti del cuore.
Niente. Ancora qualche suono. Poi nient’altro.
Guardai Emile, che annuì, segno che aveva compreso il da farsi. Era già pronto ad abbassarsi e strisciare al suolo, così come avevamo stabilito durante le esercitazioni, prendendo copertura dietro un cumulo di rocce abbastanza alto da celarne la figura minuta per intero. Io avanzavo nell’erba, sprezzante del pericolo, incurante che la pistola che impugnavo tra le mani non era altro che un giocattolo. E di nuovo.

-Chi è là?! Un passo falso e sparo!- secca, arida. La voce acuta era poco più che quella di una bambina. Ero una bambina, in fin dei conti.

Dai cespugli sbucò fuori la testa bionda di Stevens, ed io tornai a tremare per un istante, mentre un brivido freddo mi percorreva la schiena nel constatare che la sua faccia era gonfia di lividi, di sangue raggrumato in piccoli tagli verticali. Un occhio era più gonfio dell’altro, e non aveva addosso niente, se non un paio di brandelli di pantaloni rimasti attaccati alle gambe scavate da bruciature profonde.
Sgranai gli occhi, deglutendo a vuoto. Emile balzò fuori dal suo nascondiglio, mentre Stevens, poco più alto e grande di noi, ci barcollava incontro tenendo in mano il suo coltello da caccia come unico baluardo di difesa contro il mondo che gli aveva fatto quello.

-Do… dov’è Johanne…?- sussurrai in un singhiozzo, rapida, trattenendo lo sgomento, la rabbia che iniziava a scalpitare dentro al petto. Le nocche sbiancavano attorno al calcio della pistola giocattolo. Sentii Emile avvicinarsi alle mie spalle, con la stessa aspettativa stampata negli occhi chiari.

Stevens ci guardava, ma non ci stava vedendo realmente. Aveva negli occhi qualcosa di terribile. Avrebbe pianto, se la polvere che gli incrostava gli occhi non glie l’avesse impedito. La cenere gli impastava le ferite sulla faccia resa scura. Scosse il capo una sola volta, prima di crollare sulle sue ginocchia bruciate, svenuto.
Poco dopo scoprimmo che si era dovuto trascinare fin lì per chissà quanto tempo, da solo,  con la morte stretta nel cuore, semplicemente per assicurarsi che noi fossimo vivi.

Johanne, non era stata così fortunata.

Quando la seppellirono indossava la sua gonna a fiori gialli. I capelli rossi erano rimasti intatti. La madre li aveva acconciati con cura in una treccia come faceva di solito, nonostante del suo bel viso lentigginoso non era rimasto che un cumulo di carne maciullata. Le mancavano le gambe, ma la gonna riusciva ancora a darci il barlume di quel corpo per intero.

Riuscivo ancora a sentirne la voce gentile risuonare in sottofondo. Ridere. Le sue gambe saltarci appresso per non rimanere indietro, per via della gonna che le impediva di muoversi come si deve. Riuscivo a vedere quelle sue piccole mani pulite tirare fuori dalla borsa la roba che aveva rubato alla madre strappandole qualche ceffone di cui mostrava fiera i lividi sulla guancia, come fosse anche lei una guerriera come noi.

Johanne  era morta schiacciata sotto le macerie della drogheria che era stata distrutta dall’ennesima ondata di bombardamenti. Aveva tredici anni.
Riuscivo ad immaginarmela protesa verso la credenza in punta di piedi, contando i secondi che passavano con inesorabile velocità prima che la madre tornasse in cantina a controllare che non stesse rubando per l’ennesima volta qualcosa per noi.
La gonna di Johanne diventò la nostra bandiera.
Il motivo portante della nostra rabbia.

L’ideale, per cui avremmo per sempre combattuto.