mercoledì 23 maggio 2012

Gravità.

Mi vesto di innocente perfidia, mi armo di affilato sarcasmo, mi muovo con leggerezza su fili di ciniscmo, mi arrampico fino alla vetta più alta della solitudine e da li, sono pronta a cadere nell'abisso della vergogna.

Fa caldo al rifugio, qualcuno di loro ha sparato a palla il riscaldamento e spero vivamente che ciò non si ripercuota sul mio già scarno stipendio. Ho lasciato il mio alloggio solo un paio di volte, oggi. Un sbronza epocale. La mia emicrania ne è testimone, e persino il mio senso di colpa. Barcollo lentamente, ondulando sulle gambe che tremano, molli, gettandomi a peso morto sul letto con lo strano desiderio di sprofondarci dentro e morire; morire di morbidezza, mangiare quella stoffa, affogarci. Invece la testa pesa e non sono capace di tenere a freno la lingua.
L'ho ammesso, sarà stato anche l'imbarazzo di ritrovarmeli a fissarmi le tette come nemmeno non ne avessero mai viste in vita loro. Mi scopro vulnerabile a quegli sguardi, a quell'interesse. Sento d'averne in qualche modo ancora bisogno.
Chiudo gli occhi per circa un paio d'ore, ma il sole è troppo forte e nemmeno le tapparelle socchiuse riescono a tenerlo a bada. Stropiccio gli occhi, maledicendo me stessa e il mondo per avermi fatta così sensibile a due sorsi di whiskey in compagnia maschile, tra rutti e chiacchiere a base di sesso.
Mi ritrovo a sorridere senza accorgermene, per le battute di Ritter, per le risposte pronte di Neville. Per quelle sue perle paterne e sincere, ma basta un colpo di tosse e tutto svanisce inghiottito all'interno della scorza dura da cui non voglio uscire. Troppo comoda. E' confortante vivere all'interno di questo guscio, è la consolazione di sapere sempre dove tornare anche ad occhi chiusi.

Sono sull'orlo di quella montagna, ma l'importante, mi dico, è scegliere su cosa cadere.
E' l'atterraggio che mi ha sempre dato il voltastomaco.

Lei.
Stanca, cerco di non smontare da cavallo e mantenere le chiappe strette su quella sella, nonostante mi costi più fatica della forza che posseggo al momento e me la ritrovo ai piedi della Quercia, con quella sua fisarmonica a bocca a strimpellare chissà quale vecchio motivo. Che fosse bella - nel vero senso della parola, di quella bellezza che ti incanta, che ti lascia sensa fiato e ti fa sprofondare nel silenzio allibito di chi teme che la propria voce possa turbarne le linee perfette- non me n'ero mai accorta. E forse non lo è. Forse mi sento solo in dovere di pensarlo, perchè adesso ho una responsabilità. Devo dimostrarle che non si è sbagliata.
Le dita ossute affondano tra i capelli cercando la cute, pronte ed avide, assassine torturatrici. Riordino idee che sfuggono al controllo un attimo dopo e mi sembra di non aver riflettuto affatto.
Lei è ancora li, mi sta ancora guardando e sfoggia ancora quel sorriso carico di speranza e di  ingenua dolcezza che io non ho mai saputo sfoggiare. All'improvviso mi rendo conto che tutta l'aria del 'Verse non mi basta. Soffoco. Allargo il collo della camicia, ma non provo alcun sollievo. Tossisco e quella sensazione nota torna a galla. 
Fuggire.
Ma sto precipitando e non c'è via di fuga dalla gravità.

Negazione.
Rabbia.
Patteggiamento.
Depressione.
Accettazione
.

Sono qui, non c'è più modo di tornare indietro, ormai. Riesco quasi a vederlo, il punto di incontro, la linea che mi separa dal nulla, al tutto solido e materiale, mentre corro e collasso alla velocità della luce. Una stella cometa dritta verso l'infinito ed oltre. L'Abisso mi accoglie. Chiudo gli occhi e mi abbandono completamente.
Questo letto non mi è mai sembrato più soffice.

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