giovedì 28 giugno 2012

I say goodbye to myself.

Ancora su Horyzon.
Mi chiedo quando e se riuscirò a tornare allo Skyplex di Hall Point e abbandonare questo schifo di città ai suoi riccastri pomposi, ai suoi ristorantini di lusso, ai suoi curiosi animali, ai suoi circhi da quattro soldi, alle sue puttane strapagate.
C'è di buono che tutto si è concluso. Abbiamo i farmaci e nessuno si è fatto male, per quanto l'incolumità del resto del mondo, oltre all'equipaggio, non stesse all'apice del mio interesse.
Ho visto l'esitazione nelle mani di Neville, ad un passo dall'eliminare un prezioso ostaggio fin troppo stupido per capire la gravità della situazione. Non mi sento in colpa nel pensare che io non avrei avuto nemmeno un briciolo di quell'esitazione.

Le cicatrici ai polsi sono aumentate esponenzialmente da un po' di tempo a questa parte e qualcuno non tarda a farmelo notare. Sento la pelle tendersi e farsi sempre più sottile sui tendini spessi delle braccia.
Non ho voglia di prendermi cura di me, adesso. Lascerò che ogni ferita faccia il proprio corso.

Perdo il controllo, lo perdo troppo spesso. Ormai la voce dei miei pensieri è tanto forte da non poter più riuscire a trattenerla dentro la gola. Mi guardo allo specchio e mi trovo incredula e irriconoscibile difronte a quel che sono.

"Se ti guardi allo specchio e non ti riconosci, vuol dire che quello di prima non eri tu."

E allora dove sono finiti gli ultimi ventitre anni della mia vita?
Neville è sempre riuscito a trovare risposte semplici a quesiti che non lo sono mai stati. Parlare con lui è come sentirsi dire sempre ciò che si vuole sentirsi dire, o peggio, ciò che non si vuole ammettere a se stessi. Mi scopro sensibile a quel fascino paterno, forse proprio perchè Neville di mio padre ha molte cose. L'odore di sigaro, forse. La saggezza e l'immaturità insieme. Quel senso di infinita protezione che non scema nemmeno al cospetto del chiarore dei primi raggi di Sole all'Alba.
Credo di averlo amato per un istante, per una piccola frazione di secondo il mio cuore ha ceduto, forse per ciò che mi ha riportato a memoria o per far credere a me stessa di essere meno sola.
Gli ho dato un cazzotto e sono fuggita.
Spero gli sia rimasto il segno.

Scavo nell'abisso del ricordo cercando di trovarci dentro qualcosa che mi riconduca alla nuova me. Il filo conduttore, solo per comprendere se è davvero questa la vita che volevo e che cercavo, o se mi sono solo smarrita per la strada, annebbiata da paure e false speranze, da una bella voce. O forse dovrei lasciare fare alla Vita il proprio corso, proprio come con queste ferite.

Zoya è una bambina troppo cresciuta, una donna in piena regola. Sorrido, quando la vedo farsi livida di gelosia se le mie attenzioni cessano d'essere tutte solo per lei.
Non so cosa mi convinca ancora a starle accanto, non so proprio cosa mi convinca a darle ancora quello che cerca, anche se solo in parte.
Non so se sia questo l'amore.
Amare è un impresa.
Per amare bisogna essere pazzi, energici, generosi e ciechi. Ed io forse non sono nessuna di queste tante cose.
Chissà se un giorno avrò il coraggio di dirle che non so se l'amo, o se ciò che mi spinge a continuare a stare con lei è solo il bisogno sopito d'essere amata.
Chissà se mai sono riuscita ad essere, almeno una volta nella vita, sincera con me stessa.
So solo che l'avrei uccisa, per lei. Davanti a tutta quella folla, col rischio d'essere presa, incastrata, e di mandare a puttane tutti i piani di Neville, compreso il rapimento e la bomba alle Terrazze; giuro su Dio -semmai ve ne fosse uno- che io l'avrei uccisa.
Ma quella donna non mi serve a niente morta, non più di quanto mi serva da viva.
Non ci sarà una seconda occasione e a dire la verità non so nemmeno se l'odio che provo sia reale, o solo l'ennesima proiezione delle mie mancanze.

"Ho capito ciò che cerchi! Cerchi protezione, stabilità, ma non puoi averla... e non sai chi odiare."

In una cosa si è sbagliato, però: io so perfettamente chi odiare.
Il problema è che odio me stessa.


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